Quando andiamo a vedere una rappresentazione teatrale solitamente ci lasciamo coinvolgere dalla scena e spesso ci dimentichiamo di tutto il movimento che sta dietro. Quel lavorio silenzioso che consente lo svolgersi dello spettacolo. Dietro il palco, al buio, si muovono ignoti personaggi che preparano tutto, suggeriscono e si sincronizzano con l’andamento dello spettacolo, perché ogni scena abbia luci e ritmo. Anche quando guardiamo un ragazzo o una ragazza a volte ci piace soffermarci a vedere la rappresentazione che sta mettendo in opera, ma siamo talmente presi dalla scena che ci dimentichiamo di quello che si sta muovendo dietro.

In effetti una rivoluzione accade realmente dietro le quinte. Non c’è più allora una scena stabile e il copione viene continuamente riscritto.E in questa rappresentazione emergono domande e pensieri ingombranti, ma importanti:

“Chi sono io?”. “Qual è il mio posto nel mondo?”. “Cosa devo fare del mio futuro?. “Ma perché devo passare tutte le mie giornate nello stesso modo?”

E ancora:

“Ho bisogno di una mano, ma non ve la posso chiedere perché voglio farcela da solo!”.

“Tutta questa vita mi sembra una recita. Me lo riscrivo io il copione adesso. Ma ho bisogno che mi sosteniate, senza decidere al posto mio. E se proprio dovete farlo, fatelo senza starmi troppo addosso”.

E di tutti questi pensieri, alcuni restano nei retroscena, nel silenzio delle parole non dette, altri entrano in scena, un po’ urlati nella speranza di essere accolti.

L’idea quindi che l’adolescenza sia solo una fase molto tumultuosa che poi possa finire, per chi ci è dentro fino al collo è davvero difficile da immaginare. Perché quando sei dentro, sei dentro e basta e sembra una rappresentazione infinita.

Un po’ tutti ci chiediamo se quel genitore o quel nonno sia mai stato adolescente, se abbia vissuto davvero quelle preoccupazioni, perché a volte – superata quella fase – sembra finire tutto nell’oblio. Dell’adolescenza, per quell’adulto lì – apparentemente – nessuna traccia. Un po’ come quando finisce una rappresentazione e non ci si pensa più.

Ma anche se da fuori può sembrare tutto spento, dentro (o meglio: dietro) tutto si muove e lo è stato un po’ per tutti, anche se non lo dicono.

Allora iniziamo a inoltrarci un po’ nei backstage per conoscere alcuni sentimenti-lavoratori che non recitano, ma contribuiscono attivamente alla scena. Questi sentimenti, infatti,  proprio per natura, preferiscono stare dietro piuttosto che sul palcoscenico. E da lì non si schiodano. Ma anche se non si vedono, hanno un ruolo davvero importante nella rappresentazione.

  • Uno sguardo nel backstage: come lavora la vergogna

La vergogna, di per sé porta a nascondersi e impedisce di prendere parte, assumere un ruolo. Ma la vergogna muove dei fili dietro le quinte e sono dei fili che possono impedire alla scena principale di proseguire:

“Non posso uscire struccata” , “Guarda come sono bianco, ho così tante occhiaie che sembro morto” “E se qualcuno dovesse commentare il mio aspetto? Vorrei seppellirmi! Come posso poi ripresentarmi davanti a tutti?” “ Ma che diamine ho detto ieri, ma che stupidità escono dalla mia bocca?” “Non voglio che gli altri mi sentano parlare, la mia voce è orribile” “Non voglio che gli altri mi vedano”. “Vorrei essere invisibile”.

Dietro le quinte succede questo, sul palcoscenico invece: un personaggio fermo, inibito, spaventato o a volte al contrario, completamente disinibito da sembrare ubriaco, perché la vergogna non bisogna sentirla. È terrificante il modo in cui ti paralizza e ti impedisce di mostrarti per quello che sei.

E la volete sapere un cosa? Anche nella stanza di terapia alla vergogna piace stare dietro le quinte. Naturale, perché dovrebbe cambiare il suo copione? Ed è nelle pieghe delle tende che la si vede o la si intuisce, e non si pensi neanche per un momento che nella stanza di terapia bisogna tirare quelle tende.

Bisogna cogliere cosa c’è dietro e rispettarne i tempi. Perché anche se sembrano prepotenti, quei sentimenti stanno proteggendo da qualcosa di più doloroso: sentirsi inadeguati.

E così anche nelle proprie giornate, chi è dominato della vergogna vive nascosto dietro le quinte, col freno a mano tirato, nascosto dentro se stesso. Ma tutto questo perché chi ha scritto le scene e i copioni, era un autore che non si sentiva ancora pronto per far entrare in scena il suo operato.

 

  • Possono sembrare simili, ma non lavorano nello stesso modo: la mortificazione.

Un altro sentimento che manovra in modo deciso alcune scene è la mortificazione.

Solo a nominarla passa qualcosa di cupo e infatti quando decide di prendere le redini della situazione, è come se rendesse tutto più temporalesco e gli altri collaboratori si allontano. Lo fanno perché può essere decisamente severa, si aspetta molto dal suo protagonista. A volte un po’ troppo e quando lo delude la mortificazione manda in scena una nuvola grigia che sopra la testa del personaggio continua a picchiettare pioggia insistentemente, per abbatterlo e non farlo proseguire in quello che ritiene sia una sorta di fallimento e il personaggio inizia a sentirsi malissimo:

 

 

Non volevo deludervi, ma ho fallito anche stavolta” “Non riesco mai a far contenti i miei genitori” “Pensavo che mi volesse bene e invecepensa quelle cose di me” “Non pensa che io abbia valore, ma io ho davvero valore quindi?” “Ma perché anche se ci metto il massimo non riesco a ottenere quello che voglio?”

 

Dietro le quinte alcuni lavoratori scuotono la testa pensando: “E’ troppo severa, vuole troppo, così ci blocca il personaggio”. “Ma cosa pensa di ottenere in questo modo?”

Non possiamo dire però che sia sempre male intenzionata, infatti se dentro quella severità, quel rimprovero, c’è anche il riconoscimento vero di un valore, allora il personaggio può rendere la sua pioggia un arcobaleno e la mortificazione diventa “vivificante”. Tutti tirano un sospiro di sollievo. La scena può proseguire, il personaggio non è un fallito, è solo una persona che può migliorarsi. “Sbagliando si impara” – ma solo se la mortificazione ha un equilibrio giusto.

Allora anche nella stanza della terapia, la mortificazione resta dietro, ma rispetto alla vergogna , emerge con forza nei monologhi che sembrano non appartenere davvero a chi li pronuncia. Sono spesso voci di altre persone, interiorizzate nel tempo, che ora parlano come se fossero la persona che è lì davanti — solo che la persona non sa ancora che non sono davvero sue.

In questi casi, è importante andare a leggere il copione, perché la mortificazione ha la capacità di farlo interpretare fedelmente dal personaggio facendogli dimenticare che è solo un copione. Risulta davvero importante far scoprire al personaggio che quelle voci che interpreta non gli appartengono. E dunque a questa operaia severa va un po’ detto: “Se davvero vuoi aiutare questo protagonista a dare il meglio di sé, devi aiutarlo anche a trovare il suo valore. Perché se continui così, blocchi tutto.”

 

  • Lavora nella regia: il senso di colpa

Il senso di colpa è un co-regista instancabile, si fa sentire in ogni dettaglio. Lavora in regia e tiene d’occhio tutto: testi, luci, costumi, tono di voce. E se qualcosa non funziona? Tutto va fermato, perfezionato. E dove lo troviamo il senso di colpa? Si esprime poco a voce, perché fa male sentirlo, risuona nella testa.

Solita storia, sbagli sempre” “Non ne fai una giusta” “Guarda per colpa tua cos’è successo! Ma non riesci proprio a essere meglio di così?”

E quando queste frasi non riescono più a stare dentro diventa:

“Scusa” “Non lo farò più” “Non sbaglierò più” “Migliorerò” anche se nessuno te l’ha detto, ormai è dentro.

Si nutre di aspettative elevate, quasi sempre prese in prestito da qualcun altro: un genitore idealizzato, un fratello riuscito meglio, una società che non fa sconti. Prendere ispirazione non è il problema. Il problema è quando l’altro diventa l’unica misura possibile. E allora il senso di colpa smette di dirigere lo spettacolo della vita e comincia a censurarlo.

Così le scene non si girano, le battute non si dicono, le emozioni non si mostrano.
Il palco resta vuoto.

Il senso di colpa ha una voce educata, ma tagliente. Non ti urla contro, ti sussurra che è meglio così: che non è il tuo momento, che qualcun altro lo merita di più, che è giusto sacrificarsi.

In terapia, il senso di colpa si vede quando ogni desiderio porta con sé una rinuncia. Quando un’affermazione personale è subito seguita da una scusa. Quando la libertà si vive come minaccia, non come conquista. E il copione diventa una prigione.

Perché se quello che è il tuo ideale è troppo distante da ciò che sei, nessuna opera potrà mai andare in scena.

  • Il triangolo delle Bermuda: se finisci dentro lì, scompari.

Come il triangolo delle Bermuda, quando questi tre operai — vergogna, mortificazione e senso di colpa — agiscono insieme, possono orchestrare un vero smarrimento del sè.

A cosa serve la terapia? Per non sparire nella vita, non stare dietro le quinte e ritrovare, rispettosamente, sé stessi Un passo alla volta.

 

Dott.ssa Sara Pontecorvo

Bibliografia utile:

  • Pelanda, E. (1995). Non lo riconosco più. Genitori e adolescenti: un’alleanza possibile. Milano: Franco Angeli Editore.
  • Pelanda, E. (1998). “Vergogna, mortificazione, inferiorità in adolescenza”. Adolescenza, 1, pp. 50-61.

Sara Pontecorvo

Sono Sara, una psicologa clinica e psicoterapeuta specializzata nell’approccio alle criticità della fase adolescenziale. ASCOLTO, CONFRONTO, FIDUCIA RECIPROCA. Su questo baso il mio rapporto con i ragazzi e le loro famiglie.

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